Articolo n. 9
I contratti di locazione commerciale in epoca emergenziale: disamina a partire da un caso concreto

Come è noto, le misure di contenimento messe in atto dal Governo per contrastare la diffusione del Covid-19 (c.d. factum principis) e lo shock economico da esse generato hanno incrinato l’equilibrio dei contratti, con particolare riferimento a quelli di durata, come la locazione commerciale, nell’ambito della quale, peraltro, è spesso concessa fidejussione da parte del conduttore, a garanzia del pagamento dei canoni.

In ordine a tale fattispecie contrattuale, a causa delle sopravvenienze, si è verificata (e si sta verificando tutt’oggi) un’evidente alterazione di almeno due condizioni presupposte al tempo della stipula: la piena e libera utilizzabilità del bene locato e il livello della domanda di beni o servizi erogati nell’ambito del mercato di pertinenza del conduttore.

Se una parte delle vertenze si sono risolte stragiudizialmente, un’altra parte delle stesse sono approdate con ricorsi cautelari ai sensi dell’art. 700 c.p.c. di fronte ai Tribunali italiani, i quali già a partire dall’estate 2020 si sono espressi al riguardo, ivi incluso il Tribunale di Roma con ordinanza del 27 agosto.

In particolare, con detta ordinanza, il Tribunale romano, affermando l’esistenza di un obbligo legale di rinegoziare il contratto di durata colpito da eccessiva onerosità sopravvenuta e aderendo all’ orientamento dottrinale (ad oggi) minoritario che consente alla parte onerata di esperire in via principale un’azione per la modifica equitativa del contratto squilibrato, anche in difetto di una previa domanda di risoluzione, ha accolto parzialmente le domande del conduttore-ricorrente, disponendo la riduzione dei canoni di locazione (fino al mese di marzo 2021), nonché la sospensione della garanzia fidejussoria fino ad una determinata esposizione debitoria (30.000 euro).

Tale provvedimento affronta, tra le altre, due importanti questioni giuridiche sulle quali, allo stato attuale, si registrano interpretazioni divergenti, nonostante si avverta una forte esigenza di rimedi chiari ed efficaci.

La prima questione è relativa all’esistenza (o meno) nel nostro ordinamento di un obbligo giuridico di rinegoziare il contratto squilibrato da una sopravvenienza e, se così fosse, gli eventuali rimedi esperibili in caso di violazione dello stesso.

La seconda questione riguarda la legittimazione del conduttore ad azionare il rimedio della riduzione equitativa ex art. 1467, comma III, c.c., che viene tradizionalmente qualificata come un diritto potestativo del convenuto in risoluzione, posto che l’ipotesi risolutiva potrebbe essere deleteria per il medesimo conduttore.

Quanto alla prima questione, stando all’impostazione rigida e tradizionale, la revisione del contratto in crisi sarebbe limitata al “contro-rimedio” della riduzione equitativa ex art. 1467, comma III, c.c.; nondimeno la dottrina già da tempo ha dimostrato come nell’ordinamento positivo sia insito un obbligo generale di rinegoziazione, dando spazio ad una concezione più flessibile rispetto a quella tradizionale.

A tal proposito, per alcuni Autori detto obbligo deriverebbe dai doveri di correttezza e buona fede, in considerazione dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost., che integrano la disciplina contrattuale sia dal punto di vista contenutistico, sia con riferimento agli effetti e orientano l’interpretazione e l’esecuzione del contratto.

Altri Autori, invece, fondano l’obbligo legale di rinegoziazione sull’equità integrativa, ex art. 1374 c.c..
In ogni caso, l’obbligo di rinegoziazione sarebbe “un obbligo non scritto”, ma desumibile dai principi e dalla normativa vigenti, utile al fine ultimo della salvaguardia del negozio giuridico, colpito dalle sopravvenienze.

Detto ciò, mentre per alcuni Autori si tratterebbe di un’obbligazione di mezzi, ossia un mero obbligo di rinegoziare in buonafede, per altri Autori si tratterebbe invece di un vero e proprio obbligo di contrarre (più precisamente “di essere disponibili a contrarre”, ovvero di un’obbligazione di risultato, che legittimerebbe, in caso di violazione del predetto obbligo, l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c.

Alla luce del quadro delineato, non appare con evidenza, ma non è neanche da escludersi che il Tribunale della Capitale nel provvedimento in esame abbia aderito, con riguardo all’obbligo di rinegoziare, all’orientamento dottrinale da ultimo richiamato (obbligo di contrarre).

Sulla seconda questione, stando ad un orientamento della dottrina, accolto invero da giurisprudenza risalente, il rimedio della riduzione equitativa ex art. 1467, comma III, c.c. sarebbe azionabile anche dalla parte svantaggiata.

La possibilità per la parte onerata di chiedere la revisione in via principale, accolta dal Tribunale di Roma, sebbene si inserisca in quello che è un orientamento minoritario della giurisprudenza, potrebbe, però, essere accolta anche in futuro, dato che è chiaro che controversie di questa tipologia verosimilmente aumenteranno, e i conduttori, che potrebbero aver anche investito per il progetto negoziale, potrebbero essere più inclini alla conservazione del contratto ridimensionato, rispetto alla risoluzione dello stesso.

D’altro canto, nel caso in cui tale impostazione giurisprudenziale si andasse consolidando, probabilmente, la parte avvantaggiata dai fatti sopravvenuti sarebbe maggiormente propensa a riaprire le trattive allo scopo di portare nuovamente in equilibrio le previsioni contrattuali, onde evitare un’ipotetica soccombenza in giudizio e tutti gli oneri connessi.